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Siamo tutti stranieri (sempre)

di Tindaro Gatani

Lo «straniero» è una figura presente nella letteratura antica e moderna: dalle fiabe alle narrazioni folcloriche, dalla Bibbia all'Odissea. Da Euripide (IV secolo a.C.) a Sartre (XX secolo), passando per Seneca (I secolo d.C.) e Corneille (XVII secolo) lo straniero è figura mitica, stereotipo culturale, tema letterario. «Lo straniero, insomma — come fa notare Remo Ceserani — prima ancora di essere un personaggio di miti e di storie, è un'immagine o proiezione culturale..., quasi sempre, caricata di valori simbolici e ideologici». E «Tanto più le comunità umane sono omogenee, compatte, chiuse in sé, consapevoli di una propria identità specifica, tanto più respingono gli stranieri confinandoli nella loro diversità e accentuandone i tratti differenzianti». Ma anche: «tanto più le comunità umane si sentono deboli e indifese e minacciate nella propria sicurezza e identità, tanto più le figure degli stranieri sono caricate di valori negativi, caratterizzate attraverso tratti culturali semplificatori e rigidi, trasformate in stereotipi» (Remo Ceserani, Lo straniero, Editori Laterza, Roma-Bari, 1998).

 

Tra Roma ed Atene

Quella per l'altro non è una paura tipicamente contemporanea, essa ha, infatti, origini remotissime che risalgono ai primi incontri tra uomini primitivi sulla faccia della Terra. A fare cadere quel muro di paura bastava un cenno per mostrare l'intenzione pacifica dell'incontro. Per rafforzare la reciproca fiducia si giunse poi alla stretta di mano come convincente dimostrazione di un incontro amichevole. In periodo medievale la stretta di mano si faceva rigorosamente senza guanto. In più occasioni, infatti, il guanto era servito per nascondervi uncini avvelenati e altre varie insidie per colpire l'avversario di turno a tradimento. Anche nell'antica Grecia e nella stessa Roma l'altro, lo straniero, aveva trattamento e statuto a parte. Nella civilissima Atene fu Pericle a far approvare una legge contro i matrimoni misti che restringeva la qualità di cittadino ai soli figli di matrimoni di un cittadino e di un’ateniese. Fino ai tempi del democratico Pericle (450-451 a. C.), i matrimoni misti erano, infatti, autorizzati e ai contraenti erano concessi dei privilegi. La restrizione aveva un carattere economico e un altro politico. Da una parte si voleva restringere il numero dei cittadini che potevano godere i privilegi loro riservati. Dall'altra si volevano colpire gli interessi degli aristocratici che avevano tra i loro capi anche un certo Cimone, nato da una principessa straniera, originaria della Tracia. Sotto Pericle si definì meglio anche lo stato giuridico dello xénos, lo straniero di passaggio, e quello del métoikos, lo straniero residente, quello che oggi chiamiamo immigrato. Sia all'uno sia all'altro non era interdetto il territorio della città. Era permessa loro la libera associazione tra compatrioti, la libera pratica della loro religione. Non erano obbligati al pagamento di imposte e tasse speciali a meno che non praticassero il commercio al mercato pubblico. Né gli xénos né i métoikos godevano alcun diritto politico, non potevano accedere alla proprietà fondiaria, potevano sposare solo una non cittadina. Riassumendo: lo straniero nella democratica Atene non aveva diritto di proprietà, di voto, di uguaglianza nel potere, di pari dignità con il cittadino, di libertà di parola nelle discussioni pubbliche. A differenza di Atene, Roma fu più tollerante nei riguardi degli stranieri nel concedere la cittadinanza e quindi i diritti politici. Alla giurisprudenza romana dobbiamo ancora oggi la prima legislazione dei Diritti per gli stranieri, il famoso Jus Gentium, che tutelava gli stranieri di passaggio e quelli residenti nell'Urbe. Il Diritto delle genti portò, tra l'altro alla creazione, accanto al pretore urbano, di un nuovo pretore per la regolazione delle cause tra un romano e uno straniero. Dell'apertura dei Romani verso lo straniero ne è testimonianza la scelta a re dell'etrusco Tarquinio Prisco e successivamente quella di diversi imperatori di origine non romana.

 

Straniero-nemico-ospite

Alle origini della civiltà un unico termine esprimeva il triplice concetto di straniero-nemico-ospite. Lo stesso quadro linguistico conferma — come annota Emile Benveniste nel Vocabolario delle istituzioni indoeuropee — due massime opposte: «Insomma le nozioni di nemico, di straniero, di ospite, che per noi formano tre entità distinte — semantiche e giuridiche — presentano strette connessioni nelle lingue indoeuropee antiche», come il latino e il greco. «All'uomo libero, nato nel gruppo, si oppone lo straniero, cioè il nemico (lat. hostis), suscettibile di diventare ospite (gr. xénos, lat. hospes). Si può capire tutto questo partendo dall'idea che lo straniero è necessariamente un nemico, e, correlativamente, che il nemico è necessariamente uno straniero. Proprio perché chi è nato al di fuori della comunità è a priori un nemico, è necessario un patto reciproco per stabilire delle relazioni di ospitalità che non sarebbero concepibili all'interno stesso della comunità. I riti, i trattati interrompono così questa situazione permanente di interostilità che regna tra i popoli o le città. Protette dalle convenzioni solenni e grazie alla reciprocità possono nascere delle relazioni umane e allora i nomi delle intese o degli statuti giuridici giungono a denotare dei sentimenti». «Lo straniero — annota G. Stählin alla voce Xénos nel Grande lessico del Nuovo Testamento — e l'ambiente in cui egli vive vanno in tensione vicendevole; lo straniero, in quanto uomo di altra origine, di natura diversa e impenetrabile, fa l'impressione di un essere strano e misterioso che incute paura. Ma anche il nuovo ambiente, per lui strano e diverso, fa allo straniero l'impressione di un'estraneità opprimente e minacciosa. Così sorge un timore vicendevole». Stählin continua, rilevando che «poi l'uomo trovò un modo migliore, sorprendente, per dominare lo straniero ostile, cioè l'amicizia. Forse il timore animistico fu talvolta il primo movente del nobile costume dell'amicizia ospitale che si riscontra in molti popoli primitivi». È in tal modo che lo straniero passa dalla condizione di animale braccato a quella di essere umano tutelato dalla legge e dalla religione. Si ritiene questo passaggio come il segno e l'itinerario del procedere della civiltà. In realtà l'esperienza ci insegna che nel corso della storia le civiltà hanno spesso dimenticato di essere tali, oppure si sono rese temporaneamente latitanti. Inoltre va precisato che se la consapevolezza dell'amicizia come sentimento di reciproca accettazione può essere ritenuto un antidoto alla senofobia (sentimento di cui gli antichi non erano completamente scevri) essa non basta più a contrapporsi al razzismo che, in modo sistematico, inizia a manifestarsi attorno al Settecento con l'affermarsi delle teorie della razza che andranno via via sviluppandosi durante l'Ottocento e fino ai primi decenni del Novecento.

 

Senofobia becera

Per ironia della sorte, gli senofobi non sono razzisti fino a quando quelli che loro considerano diversi, inferiori, stranieri dai quali difendersi, essendo ridotti in stato di soggezione o di schiavitù, sono impossibilitati a nuocere ai loro privilegi o all'ideale del loro ordine sociale. I diversi fanno, infatti, paura solo quando cercano di affrancarsi dalla soggezione, partecipando alla vita politica locale (vedi Jus soli). Diritti che anche le democrazie più avanzate sono disposte a concedere al patto non di una semplice integrazione, ma di una totale assimilazione per la quale si diventa cittadini del paese ospitante. Si accetta insomma lo straniero se rinuncia alla sua diversità. Quello che si teme di più è, infatti, non la concessione di diritti per rendere gli stranieri uguali ai locali, ma il riallacciamento alla loro cultura di origine, alle loro tradizioni. Si teme insomma l'eventuale affiorare della loro essenza e della loro natura di uomini diversi e nello stesso tempo uguali. Si teme cioè, per dirlo con un brutto vocabolo coniato in Svizzera alcuni decenni fa, l'inforestieramento degli usi e dei costumi locali, che verrebbero soffocati con  la sovrapposizione di una cultura straniera. Un pericolo scongiurato invece dall'assimilazione, che, come recita il Vocabolario Illustrato di G. Devoto e G.C. Oli, è un «processo spontaneo per cui, all'interno di uno stesso Paese, una minoranza nazionale fa proprie, a poco a poco, la lingua, la cultura, la religione della maggioranza, fino ad amalgamarsi con questa». Lo sanno bene alcuni Stati che solo cancellando la cultura e l'identità di un popolo si riesce a dominarlo ed a sconfiggerne le aspirazioni di indipendenza. Perché, come canta il siciliano Ignazio Buttitta: «Ad un popolo mettete le catene, spogliatelo, tappategli la bocca, ed è ancora libero. / Levategli il lavoro, il passaporto, il letto dove dorme, la tavola dove mangia, ed è ancora ricco. / Un popolo diventa povero e servo, quando gli rubano la lingua ereditata dai padri, quando la perde per sempre. /Diventa povero e servo quando le parole non figliano parole». Negli ultimi anni, anche in Italia, si è assistito a forme allarmanti di senofobia becera, dimenticando spesso lo stesso insegnamento biblico che esorta ad «amare il forestiero» e a dargli «pane e vestito» (Deut., 10,18). Il cristiano poi ha un esempio da seguire nelle stesse parole di Gesù: «Ero straniero e mi avete accolto. In verità vi dico: ogni volta che l'avete fatto al più piccolo dei miei fratelli, lo avete fatto a me» (Matteo, XXV, 31-36). E ancora nella «Lettera agli Ebrei» di San Paolo: «Non dimenticate di essere ospitali con gli stranieri perché alcuni hanno ospitato degli angeli senza saperlo».

 

L'intervista del Duby

La paura dello straniero è il tema di una delle cinque conversazioni sulle paure di fine millennio trattate dal francese Georges Duby nel suo libro intervista Mille e non più mille, del quale ci limitiamo a riportare, senza commenti, il seguente passaggio:

Domanda: Una paura tipicamente contemporanea è la paura dell'altro, di quelli che se ne stanno ammassati alle nostre frontiere. Nell'anno mille si viveva niente di simile a questo?

Risposta: - Eccome e si trattava di una paura tanto più diffusa in quanto era fondata sulla realtà di eventi recenti. Poco tempo prima, l'Europa aveva subito l'invasione di popolazioni sistematicamente dedite al saccheggio: i vichinghi, provenienti dal nord, i magiari, che erano partiti dal fondo delle steppe asiatiche, e poi i saraceni. La memoria di tali invasioni era ancora viva, se ne temevano altri nell'immediato avvenire.

Domanda: - Come era vissuto l'arrivo di queste orde provenienti da fuori? Risposta: - Come qualcosa di brutale, come un vero e propri shock; qualcosa di totalmente diverso da quanto era accaduto alla fine dell'Impero romano, quando l'Europa era stata invasa da popoli nomadi che desideravano semplicemente integrarsi in quella sorta di cooperativa della felicità che era, per l'appunto, l'Impero romano.

Domanda: - Quando oggi si parla di paura dell'altro, ci si riferisce anche al timore di una perdita di identità culturale. È fondato, in questo caso, un paragone con il Medioevo?

Risposta: - Non più di tanto. L'Europa dell'anno mille, l'Europa in espansione che si lanciava all'assalto del mondo, veniva a essere in una posizione di inferiorità rispetto alle grandi civiltà del sud, la bizantina e l'islamica. Piuttosto che doversi difendere dalla contaminazione di culture esterne, l'Europa medievale aveva di che nutrirsi delle culture limitrofe, incomparabilmente più ricche della sua. Lo sviluppo intellettuale e scientifico europeo del secolo XII si basa sopra quello che i conquistatori cristiani trovarono nelle biblioteche arabe di Toledo e di Palermo.

Domanda: L'estero — Costantinopoli, ad esempio — era quindi un oggetto di desiderio?

Risposta: - Proprio così: Costantinopoli, ma anche la Spagna. Il Mediterraneo allora era un mondo meraviglioso. I Crociati non si sarebbero tuffati a capofitto in un'avventura così rischiosa se non avessero saputo che alla fine del viaggio avrebbero trovato donne stupende, profumi, sete, perle. Gli invasori eravamo noi! Esattamente. Quando l'imperatore di Costantinopoli vide arrivare i primi Crociati, provò paura, molta paura. Noi eravamo i barbari.

 

La diversità come risorsa

Nel corso del XVI e XVII secolo, di fronte alle grandi scoperte, la posizione geografica dell'Europa si andava facendo sempre più marginale rispetto al resto del mondo. Persa la centralità geografica, gli europei cercarono con ogni mezzo di conquistare una centralità politica, avviando vasti programmi di colonizzazione, con centinaia di milioni di Europei che invasero il resto del Mondo. L'eurocentrismo comportò la presentazione dei Paesi extraeuropei secondo stereotipi e luoghi comuni e trattandoli secondo categorie tipiche della storia europea. Si cercò insomma di imporre nel resto del mondo la cultura europea, partendo dal presupposto della superiorità intellettuale dei bianchi europei rispetto a tutti gli altri. Con il passare dei secoli, anche gli europei hanno tratto tuttavia grandi vantaggi dal contatto e dagli scambi con i popoli degli altri continenti. La grande mobilità dell'epoca moderna sta portando a meno isolamento, più movimento, più migrazioni, più incroci, anche tra popolazioni lontane. E non ci sono solo vantaggi a livello biologico dalla mescolanza di persone di origini diverse, anche la cultura europea, libera dalla pretesa di essere superiore, può arricchirsi sempre più con gli scambi e gli apporti delle culture più diverse. Nella nuova Europa sembra ormai definitivamente sconfitta la mentalità arretrata che faceva pensare all'unificazione del continente come a una sommatoria massificante di popoli e culture da omogeneizzare. Sempre più si sta facendo, invece, strada l'idea contraria e cioè quella di potenziare la diversità, perché il naturale riconoscimento della propria identità è il presupposto all'unità. Il futuro dell'Europa e del mondo intero è nella mescolanza armoniosa di genti, di esperienze, di culture diverse. A patto, però, come si diceva, che ognuno sia cosciente della propria identità e delle proprie radici culturali.

Per concludere, due poesie di due anonimi poeti cinesi. Il primo ci parla del ritorno al paese natio di un vecchio emigrato che aveva passato tutta la sua via in terra straniera:

Ragazzetto lasciavo la casa / vecchio e stanco ritorno / i giovani mi incontrano / e mi chiedono: / "Forestiero da dove vieni?"

Il secondo ci esorta, invece, a non considerare straniero il nostro prossimo, e soprattutto la gente con la quale tutti i giorni stiamo a contato o prendiamo lo stesso tram:

Le facce l'una all'altra accanto non si vedono / Piedi calpestano piedi / Spalle urtano spalle / Ma un muro alto si erge fra gli uomini / Per caso gli occhi si incontrano / Le pupille si fermano / Le palpebre si alzano / Quanti sospetti si mescolano con infinite antipatie. / Tutti si muovono in uno stesso carro palpitante / Perché / Non aprono il cuore a riscaldare un po' il viaggio?